martedì 4 marzo 2008

SCIENZE POLITICHE

“Non piacciamo a nessuno, non so perché/ magari non siamo perfetti ma Dio sa se ci proviamo/ E tutti intorno perfino i nostri vecchi amici ci denigrano/ Sganciamo l’Atomica e stiamo a vedere che succede./
Gli scuciamo un sacco di soldi – ma ci sono riconoscenti ?/ No, sono maligni e odiosi/ Non ci rispettano – perciò prendiamoli di sorpresa/ sganciamo l’Atomica e polverizziamoli ! /
L’Asia è affollata e l’Europa troppo vecchia/ In Africa fa troppo caldo e in Canada troppo freddo/ E il Sud America ci ha rubato il nome./ Sganciamo l’Atomica: tanto non resterà nessuno a darci la colpa. / Salveremo l’Australia / non vogliamo far del male ai canguri/ Ci costruiremo un parco di divertimenti per soli americani / e ci andremo a fare il surf.
Bum ! Via Londra e Bum ! Parigi / Più spazio per me e per te/ Ed ogni città in tutto il mondo/ non sarà nient’altro che
Un’ennesima città amaricana/ che pace ci sarà ! / tutti saranno liberi e indosseranno kimono giapponesi e scarpe italiane. /
Però tutti quanti ci odiano comunque. / Allora sganciamola subito, sganciamola subito !”

Randy Newman – Political Science (1969 – dall’album Sail Away – 1972)
PAWN HEARTS


Con questo disco del 1971 i VDGG toccano il loro massimo culmine creativo: i due lunghi pezzi della prima facciata, Lemmings e Man-Erg, e la suite A Plague of Lighthouse Keepers della seconda, sono le cose in assoluto migliori, sotto tutti i punti di vista, che Hammill&C. abbiano mai realizzato. Poco avvertibile ma determinante nell’organico è anche la presenza, accreditata come quella di un vero e proprio quinto membro, di Robert Fripp (che appare nei credits di copertina, quasi volesse minimizzare il suo apporto, con il solo cognome Fripp). Splendida anche la copertina di Whitehead: in orbita intorno alla terra, sullo sfondo di una sorta di quinta teatrale celeste, pedine trasparenti inglobano figure archetipiche di uomini; si distinguono Napoleone Bonaparte e John Lennon, Archimede e Shakespeare, Giulio Cesare e l’astronauta Aldrin, un marinaio, un moschettiere, un giocatore di cricket, un re, una guardia della regina d’Inghilterra, un assassino con la vittima sulle spalle; accanto a loro un disco volante, una barchetta-mongolfiera a forma di guscio di noce ed un omino verde tipo marziano di Dan Dare: tutti cuori di pedine. Nella copertina interna invece appare una fotografia del gruppo che creò qualche fraintendimento e qualche problema “politico” ai VDGG. Di fronte ad un cottage tipicamente inglese avvolto fra gli alberi, Banton, Hammill e Evans – che indossano identiche camicie nere e cravatte bianche - scambiano, in piedi sopra un tavolo, il saluto romano con Jackson che, più in basso di loro, tiene sotto braccio un pallone da football. Non tutti colsero lo spirito ironico dell’immagine, che oltretutto pare non avesse niente a che vedere col fascismo ma fosse solo la caricatura di un quadro neoclassico di David (ambientato durante l’impero romano dunque o al massimo quello napoleonico). Qualche anno più tardi - ai tempi della prima riunificazione, i tempi di Godbluff e Still Life, per intenderci – una tourneè italiana fu turbata da sgradevoli episodi politico-gangsteristici: gruppi di estrema destra interruppero i concerti salutando la band a braccio teso; Hammill ebbe da obbiettare; i fascisti risposero lanciando bottiglie e lattine e scatenando risse col pubblico; qualche giorno dopo il camion con la strumentazione fu rubato e venne chiesto un riscatto; i VDGG ponendo fine ad una lunga tradizione di rapporti idilliaci o quasi con il pubblico italiano preferirono interrompere il tour e tornarsene a casa. Quella fu la peggiore esperienza di tutta la loro carriera dalle nostre parti: ma i tempi stavano ormai cambiando l’era progressive volgeva ad un rapido declino ed il punk avrebbe fatto definitivamente piazza pulita di menestrelli e di rockers wagneriani.
Copertina a parte, il disco prolunga ulteriormente il complesso discorso musicale della band portando a completa fioritura le sperimentazioni sbocciate nei precedenti lavori; anche la letterarietà dei testi hammilliani raggiunge in questo periodo uno dei suoi massimi vertici: prospettiva visionaria, inquietudine esistenziale e lirismo poetico incontrano una sistesi perfetta che si rinnoverà in modo così cospicuo solo nel più tardo (e musicalmente meno innovativo) Still Life. Anche la strumentazione è notevolmente arricchita: Hammill aggiunge all’abituale chitarra e pianoforte acustici, la slide e il piano elettrico; Jackson mantiene i suoi saxofoni tenore, alto, soprano e il flauto; Evans imperversa alla batteria, timpani, percussioni e piano; ma soprattutto Banton, oltre agli organi Hammond e Farfisa e al piano (nonché alla chitarra basso e alla pedaliera), si cimenta anche al mellotron e al sintetizzatore ARP.
Lemmings, il brano di apertura, si riferisce ai roditori scandinavi che, quando migrano a migliaia, ignorano ogni ostacolo di fronte a loro e, in certi casi, si gettano dalle scogliere nuotando in linea retta in mare aperto sino ad annegare. La metafora riguarda la scelta fra vita e morte, il suicidio come soluzione accettabile di una vita priva di senso. Canta Hammill: “Me ne stavo da solo in cima alla scogliera più alta, guardavo giù e intorno, contemplando coloro ai quali mi sarei unito molto volentieri precipitando ciecamente nel mare; avrei voluto chiedere che gioco fosse quello, ma sapevo che non lo avrei mai giocato, la loro voce, come una, come nessuna, mi raggiunse…”. Su un tenue arpeggio di chitarra acustica si dipana il tortuoso tema conduttore melodico intervallato dai pieni sinfonici dei sax e del flauto di Jackson e delle tastiere di Banton. Il secondo tema conduttore scandisce le strofe successive, le voci dei lemmings: “Le nubi si ammassano in forma di montagne, non c’è via di fuga se non andando avanti. Non chiederci una risposta adesso, è ormai troppo tardi per inchinarsi a questa convenzione. Quale via c’è rimasta se non morire ?…Davvero non so perché. ”. Nell’intermezzo, intitolato Cog (ingranaggio), si susseguono nuovi temi melodici secondari e, con l’ingresso più avvertibile del sintetizzatore, i versi introducono le abituali atmosfere fantascientifiche: “Sì lo so, è fuori controllo, fuori controllo: una macchina unta scivola sui binari, giovani menti e corpi sono impalati su raggi d’acciaio. Ingranaggi ci stritolano le ossa, ingranaggi ci stritolano le ossa, mostri dalla gola di ferro forzano i nostri urli, una mente meccanica inscatola il sogno…”. Il tema precedente poi riprende “Sono codardi coloro che fuggono oggi, la lotta è all’inizio, non guerra al coltello, si combatte con le nostre vite, i lemmings non possono insegnarci niente; la morte non offre speranza, dobbiamo brancolare verso la risposta sconosciuta: unire il nostro sangue, arrestare il diluvio, scongiurare il disastro… Quale scelta ci resta se non vivere nella speranza di salvare almeno i figli dei figli dei nostri figli ? Quale scelta ci resta se non provare ? ”. Cosa davvero rara che un esistenzialismo degno di un testo di Sartre filmato sullo sfondo dei paesaggi nordici e desolati di Bergman, possa dispiegarsi così pienamente in una canzone rock, seppur complessa e variegata come una piccola sinfonia. Anche la successiva Man-Erg (curioso titolo: l’erg è, in fisica, l’unità di misura del lavoro di una forza. Uomo-potenza, potrebbe essere un tentativo di traduzione) è una sorta di appendice e chiarificazione di Lemmings che sviluppa gli stessi argomenti in una prospettiva meno disperata. Hammill passa ora dalla chitarra acustica al pianoforte producendo uno dei più epici, toccanti e sinuosi duetti con l’organo di Banton, per lasciare poi spazio ai sax di Jackson di evocare gli stridii dei gabbiani, l’eco lontano delle sirene, il clangore astratto della tecnologia: il brano sembra sintetizzare dualisticamente in sé la doppia anima del gruppo, quella melodica e quella cacofonica: la dolcezza di Refugees e la forza brutale di Killer riassunte in un unico impeto. “L’assassino vive dentro di me – canta Hammill – posso sentirlo muovere. Talvolta dorme leggermente nella quiete della sua stanza, ma poi i suoi occhi si alzano e fissano attraverso ai miei; pronuncia le mie parole e condivide la mia mente dall’interno. Sì, l’assassino vive. Gli angeli vivono dentro di me: posso sentirli sorridere…la loro presenza allevia e sopisce la tempesta nella mia mente e il loro amore può guarire le ferite che ho ricevuto. Mi guardano quando sto per cadere: so che sarò sostenuto finchè gli angeli vivono”. Il prepotente riff pianistico rinforzato dai fiati pandemonici di Jackson interrompe bruscamente l’idillio di voce, piano e organo. Le spire concentriche dell’angoscia, come nel quadro “L’urlo” del pittore scandinavo Munch, avvolgono in un turbine centripeto il soggetto-cantante che prorompe in un grido distorto e riverberato dall’eco: “Come posso essere libero ? Come posso avere aiuto ? Sono davvero me stesso ? O sono qualcun altro ? “. La parentesi dissonante giunge al parossismo per ricomporsi in una nuova melodia in cui emergono sax e mellotron, la voce di Hammill, nuovamente pacificata riprende ad intonare un breve inno dai toni maestosi che, dopo un interludio breve e commovente, riconduce al tema iniziale costruito sul duetto piano-organo: “Anch’io vivo dentro di me e molto spesso non so chi sono: so di non essere un eroe e spero che non sarò dannato. Sono solo un uomo e assassini e angeli sono tutti come me: dittatori, redentori, esuli, in guerra e in pace da quando vive l’uomo…”. Un coro eroico e solenne sostenuto da organo, fiati e mellotron riprende i due temi principali del pezzo, quello cantabile e il riff dissonante, incrociandoli e intervallandoli, per sfumare poi, con studiata pomp and circumstance, negli ultimi tocchi di mellotron che, come onde di marea, si assottigliano in un suono sibilante che cede infine al silenzio.
La suite in otto movimenti della seconda facciata, A Plague of Lighthouse Keepers (altro titolo insolito: Un’epidemia di guardiani di faro. Metafora che allude alla società moderna in cui, come una pestilenza, si diffonde la solitudine, l’isolamento, l’incomunicabilità, simbolizzata dal guardiano del faro, il solitario, il misantropo), è forse il lavoro più evoluto e complesso che i VDGG abbiano mai realizzato insieme, il loro massimo capolavoro e il compendio totale dei loro temi, sogni ed incubi. Il primo movimento Eyewitness (testimone oculare) è strutturato su una lenta progressione di pianoforte elettrico e basso, sulla quale la voce prima filtrata, poi in falsetto di Hammill intesse con sax e flauti jacksoniani un fantasioso fraseggio sul quale si immette anche l’organo di Banton. La voce viene moltiplicata in un coro, torna poi ad appannarsi in un filtraggio elettronico. Il testo è quanto di più visionario Hammill abbia mai prodotto, con forti echi marinareschi da The Rhyme of the Ancient Mariner di Coleridge o dal Gordon Pym di Poe: “Ancora in attesa del mio salvatore, tempeste mi consumano arto per arto; le mie dita sembrano alghe…Io profetizzo il disastro e poi ne conteggio il costo: splendo, ma splendendo, morendo, so di essere quasi perduto”. L’ultima parte del brano si fa meno melodica, la voce si fa aspra ed i sax irrompono con più prepotenza mentre Hammill intona gli ultimi versi:”Quando vedrai gli scheletri degli alberi maestri delle navi sprofondare, inizierai a chiederti se il senso di tutti gli antichi miti non fosse solennemente diretto proprio verso di te…”. Il secondo movimento Pictures/Lighthouse (Eddies/rocks/ships/collision/remorse. Spiega una didascalia) è interamente strumentale e affidato per intero alle tastiere elettroniche prima e poi all’organo di Banton ed ai sax di Jackson che ricreano lo stridio dei gabbiani, le differenti sirene di navi in lontananza in un porto ovattato dalla nebbia, lo stantuffare dei motori, ecc. A conclusione l’Hammond di Banton intesse una sorta di preludio bachiano di lancinante intensità. Riprende Eyewitness sviluppando le premesse dell’inizio ma la voce di Hammill ha ora scatti paranoici e impennate isteriche, entrano infine i sax con un riff vagamente rockeggiante che immette nel movimento seguente, S.H.M. , il cui testo rimanda esplicitamente a tutta una tradizione di horror marinaro alla William Hope Hodgson a base di spettri di annegati, relitti fantasma, ecc. Poi un nuovo episodio ancora rarefatto e melodico, The Presence of the Night/Kosmos Tours: “‘Solo, solo’ tutti i fantasmi chiamano, individuandomi nella luce. L’unica vita che avverto è la presenza della notte”. Al termine della parte cantata c’è una pausa, un vuoto silenzioso entro il quale la voce sonnambolica di Hammill sussurra “Piangeresti se morissi ? Piangeresti se morissi ? Afferreresti le mie ultime parole ?”. La pausa si interrompe e scandita dalle rullate vigorose di Evans la musica riprende nervosa sottolineando lo scatto neuropatico di Hammill. La voce sprofonda nel caos mentre piano e batteria si rincorrono in una sequenza fortemente ritmica e dissonante. Poi l’atmosfera cambia ancora: sibili e bisbigli elettronici, solidi accordi di piano, i versi salmodiati da Hammill rimandano direttamente a Poe: “Il maelstrom della mia memoria è un vampiro che si nutre di me stesso, così incespicando follemente oltre l’orlo del precipizio io cado”. Una brusca interruzione segna il passaggio al movimento successivo, (Custard’s) Last Stand, uno dei vertici della suite, quanto a melodia: qui Hammill riecheggia i toni lirici e malinconici di Refugees intessendo sui limpidi accordi del piano di Banton armonie vocali commoventi. Dopo la parentesi idilliaca di nuovo un brusco precipitare nella tregenda, The Clot Thickens, il momento di massima dissonanza e atonalità nella musica e di massima tensione nevrotica nel canto: Hammill ormai urla e impreca su una babele sonora scandita dal ritmo aschemico delle percussioni di Evans : “Dov’è il Dio che guida la mia mano ? Come possono raggiungermi le mani degli altri ? Quando troverò quello verso cui sto brancolando ? Chi mi insegnerà ?”. L’equilibrio si spezza definitivamente musica e voce giungono al parossismo di un grido disperato : “Non voglio essere solo un’onda sull’acqua. Ma il mare mi trascinerà in profondità. Solo un altro smunto affogato…Posso vedere i Lemmings che avanzano, ma io so di essere solo un uomo”. Ormai spezzato come un relitto il flusso sonoro sconnesso sprofonda nel gorgo per riemergere ricomponendosi in una progressione cristallina di accordi di piano: inizia la sequenza conclusiva della suite, Land’s End (Sineline)/We Go Now. Hammill torna a cantare in modo epico e disteso: è il gran finale. Al culmine di tanta disperazione, forse – se il personaggio, come sembrerebbe, si è davvero annegato – nel momento stesso della morte, tutto si inverte di segno, il negativo diventa positivo, l’ego ha perso la sua presa è non c’è più separazione fra soggetto e oggetto, ogni cosa è perfetta ogni cosa è al suo posto: “Campi di pienezza e di maestà, che significa Libertà di Scelta ? Che posto prendo nella parata ? Di chi è la mia voce ? Non mi sembra così terribile ora: credo che la fine sia l’inizio. Comincio a sentirmi davvero felice adesso: TUTTE LE COSE SONO UNA PARTE. TUTTE LE COSE SONO SEPARATE. TUTTE LE COSE SONO UNA PARTE.” La voce solista si perde in un coro maestoso e commosso che riprendendo il melodioso tema finale cede il passo al mellotron che si avvia sinuosamente come in un peana splendido e malinconico, verso l’ultimo prolungamento sonoro che va a perdersi nel nulla.
Le edizioni europee di Pawn Hearts terminano qui ma quelle americane includono invece anche i due pezzi che furono pubblicati in Europa solo su 45 giri: lo strumentale Theme One e la lisergica W. Il primo, forse il più grosso hit commerciale dei VDGG in Italia, è una composizione classicheggiante scritta da George Martin, il produttore e arrangiatore dei Beatles, e sembra costruita apposta per esaltare le tastiere elettroniche di Banton, i sax di Jackson e le percussioni di Evans. Il terzetto di musicisti - anticipando certi momenti della loro carriera senza Hammill, da The Long Hello in poi - fa di questo breve e accattivante episodio melodico un vero e proprio inno del prog: il ricordo dei primi anni ’70 non può che volare sulle note epiche e maestose di questo proclama del sound progressivo. Non a caso i VDGG apriranno o chiuderanno i loro concerti live quasi sempre con questo brano atipico ma significativo. W è invece un’altra composizione di Hammill che lo vede impegnato anche alla chitarra acustica. L’incedere lento e catalettico, del breve ma suggestivo pezzo rimanda direttamente alla tradizione psichedelica britannica riletta però in chiave depressiva e fenomenologica: una sorta di epochè husserliana tradotta in musica che si protende dall’introduzione di sax triste e sinuosa attraverso pochi tocchi sparsi di piano, organo e chitarra acustica fino al finale brusco in cui il suono viene distorto e accelerato facendo scorrere le piste a varie velocità e poi si blocca imrovvisamente. W sta per Wave, onda, aperto riferimento alla teoria delle onde in fisica, ma il testo è assai laconico seppur abbastanza evocativo: “La vita è un’infinita successione di onde…sei felice/sei triste e non apprezzi i momenti belli finchè non ti trovi in quelli brutti…Ti svegli, guardi alla tua sinistra senza vedere alcuna testa rassicurante. Rimani a letto per tutto il giorno; alle sei in punto ti accorgi che sei morto”.
Anche i VDGG dopo l’apoteosi di questo periodo e nel momento di massimo successo decidono per il momento di “morire”. Hammill proseguirà da solo usando ampiamente anche brani nati e maturati sotto gli auspici del generatore (come la splendida e assolutamente vandergraffiana In the Black Room, canzone-suite che i VDGG eseguivano regolarmente negli ultimi concerti del 1971, ma che apparirà su vinile nel secondo solo hammilliano Chameleon in the Shadow of the Night) fino alla riunificazione di Godbluff nel 1975.
Intervistatore: Mr. Cohen, lei si considera più un poeta o un musicista?
L.Cohen : Mi considero una puttana. Una brava.
(Estratto da un’intervista dei tardi anni ‘70)




CHELSEA HOTEL N. 2

Ti ricordo molto bene al Chelsea Hotel,
parlavi in modo così coraggioso e così dolce.
Facendomi un pompino sul letto disfatto,
mentre le limousines aspettavano in strada.
Quelle erano le ragioni e quella era New York:
correvamo alla ricerca del denaro e della carne
e questo era chiamato amore dai lavoratori della canzone
e probabilmente lo è ancora, da quelli di loro che sono rimasti.

Oh ma tu sei andata via,
non è vero, bambina ?
Hai solo voltato le spalle alla folla.
Te ne sei andata,
e mai una volta ti ho sentito dire
ti amo, non ti amo,
ti amo, non ti amo
e tutte quelle solite stronzate.

Ti ricordo molto bene al Chelsea Hotel,
eri famosa, il tuo cuore era leggenda.
Mi ripetesti che preferivi gli uomini belli
ma che per me avresti fatto un’eccezione.
E stringendo il pugno per quelli come noi
che sono oppressi dalle immagini della bellezza,
ti guardasti fissa, poi dicesti - Bè chi se ne frega,
siamo brutti ma abbiamo la musica !

E poi te ne sei andata,
non è vero, bambina ?
Hai solo gettato via tutto quanto.
Te ne sei andata,
e mai una volta ti ho sentita dire
ti amo, non ti amo,
ti amo, non ti amo
e tutte quelle solite stronzate.

Non voglio dare ad intendere
di averti amato alla follia:
non posso serbare il segno
per ogni uccellino caduto.
Ti ricordo molto bene
al Chelsea Hotel,
questo è tutto.
E non ti penso poi tanto spesso.


WHO BY FIRE/ CHI PER FUOCO

Chi per fuoco.
Chi per acqua.
Chi nel sole.
Chi di notte.
Chi per alta ordalia.
Chi per comune processo.
Chi nel tuo così allegro mese di maggio.
Chi per lentissima rovina.
E chi, dirò, sta chiamando ?

Chi nel suo solitario scivolone.
Chi per barbiturici.
Chi in questi regni d’amore.
Chi per qualcosa di spuntato.
Chi per valanga.
Chi per polvere da sparo.
Chi per sua cupidigia.
Chi per sua fame.
E chi, dirò, sta chiamando ?

Chi per coraggiosa ascesa.
Chi per incidente.
Chi in solitudine.
Chi in questo specchio.
Chi per ordine della sua donna.
Chi di sua propria mano.
Chi in catene mortali.
Chi nel potere.
E chi, dirò, sta chiamando ?
SITUAZIONISMO: LA LIBERAZIONE DEL QUOTIDIANO


Erede diretto e compimento naturale delle avanguardie storiche, ispiratore dei moti del ’68, il Situazionismo si articola fra il 1957 e i primissimi anni ’70 soprattutto nel pensiero e nell’azione dei dioscuri Guy Debord e Raoul Vaneigem e di un ristretto gruppo di compagni come l’algerino Mustapha Khayati, l’olandese Costant o l’italiano Giuseppe Pinot-Gallizio. L’importanza e la fertilità di testi come La società dello spettacolo di Debord o il Trattato di saper vivere ad uso delle giovani generazioni di Vaneigem o di quelli elaborati sulla rivista L’Internazionale Situazionista resta a tutt’oggi ineguagliata per lucidità di analisi e capacità di fornire strumenti concettuali di lotta perché la vita infine trionfi contro la mera sopravvivenza: l’elaborazione e la pratica del concetto di détournement - un esempio per tutti - rappresenta un punto di partenza imprescindibile per ogni futuro progetto di critica attiva dell’esistente.
Due volumi pubblicati in queste settimane ci permettono di approfondire la questione situazionista e di ripercorrerne la contundente parabola: si tratta di Non abbiamo paura delle rovine: I situazionisti e il nostro tempo di Sergio Ghirardi, edizione DeriveApprodi e I Situazionisti di Mario Perniola, edizione Castelvecchi. Due testi quasi complementari la cui lettura parallela potrebbe offrire un ottimo viatico per incamminarsi lungo i percorsi tortuosi del situazionismo e riflettere sulla centralità e la necessità di questo movimento rivoluzionario. Mentre il volume di Perniola infatti - scritto “a caldo” nel 1972, all’indomani della conclusione dell’esperienza situazionista – si concentra soprattutto sul racconto e l’interpretazione della storia del movimento, quello di Ghilardi, prende spunto invece dalla rilettura delle principali idee-guida che animarono le pratiche situazioniste per mostrarne l’attualità e la fecondità. Marxianamente i situazionisti non fecero teoria ma azione: non cercarono di interpretare il mondo ma ordirono strumenti per cambiarlo.
Resi più affilati dal tempo trascorso in un inconcluso girovagare che non ha condotto alla meta sperata, questi strumenti niente affatto arrugginiti, restano ancora validi e attivi: la rivoluzione della vita quotidiana, la critica della società dello spettacolo, il rifiuto del lavoro – “ne travaillez jamais”, non lavorate mai, era il motto – in nome della creazione; il rigetto della rinuncia e del sacrificio a vantaggio del godimento; l’abolizione dello scambio a favore del dono. “Ce n’a été qu’un début” suonava il vecchio slogan sessantottesco: ma queste mete sono ancora raggiungibili e più necessarie che mai oggi che l’incubo globalizzato del “migliore dei mondi possibili” incombe su tutti con la sua ombra totalitaria. Come scrive Vaneigem nella commovente prefazione al libro di Ghirardi: “Una verità unica è una verità morta, le verità che si cercano sono molteplici come la vita, basta che restino vive”.
TAVIS/ROEG L’UOMO CHE CADDE SULLA TERRA 1976


Walter Tavis Jr. è uno scrittore che appartiene solo in minima parte al mondo della fantascienza. I suoi romanzi più famosi non contengono elementi fantastici e proprio da due di questi sono state tratte pellicole memorabili: Lo spaccone (The Hustler, 1959), di Robert Rossen nel 1961 e Il colore dei soldi (The Color of Money, 1984) di Martin Scorsese nel 1986. In realtà il protagonista di queste storie, magistralmente incarnato sullo schermo da un Paul Newman, rispettivamente giovane e anziano, non è affatto diverso dal gentile e sfortunato alieno de L’uomo che cadde sulla terra (1963). Che si muovano su scenari realistici o immaginari infatti, i personaggi di Tavis restano sempre e comunque dei perdenti, degli sconfitti, creature fragili che si pongono obbiettivi troppo ambiziosi e ne restano schiacciati: le loro peripezie, spaziali o terrestri che siano, li conducono inevitabilmente alla solitudine e all’amarezza.
La trama di The Man Who Fell to Heart si riassume rapidamente, non è infatti l’originalità dell’invenzione ma la sensibilità e la tenerezza con cui sono tratteggiati i caratteri a rendere grande il libro. Un alieno che si fa chiamare Newton, giunge sulla terra per stabilire una sorta di testa di ponte che favorisca il pacifico e tacito trasferimento in massa degli abitanti del suo pianeta, reso inabitabile dalla mancanza d’acqua. Il tempo per svolgere la missione è strettamente limitato: dovrà ricostruirsi un’astronave e tornare indietro prima che la sete abbia ragione anche degli ultimi sopravvissuti. Per assolvere il compito Newton fonda un piccolo impero economico sfruttando i brevetti di rivoluzionarie tecnologie extraterresti, ma l’alta finanza è un gioco truccato: viene presto identificato e arrestato. Ormai cieco e inerme, scampato a mesi di interrogatori e segregazione, non avrà altra scelta che restare in perenne esilio sul nostro pianeta, stordendosi con l’alcool per non pensare al suo mondo morto.
Il film che Nicholas Roeg trasse nel 1976 dal romanzo, affidando il ruolo dell’alieno a un David Bowie alla prima esperienza cinematografica, si mantiene sostanzialmente fedele al testo originale ma non sa restituirne a pieno il senso dolente di malinconia e fallimento.
Il Newton di Bowie (per altro efficacissimo) ingloba in parte anche la personalità di Ziggy Stardust, il “marziano” che la rockstar aveva impersonato sui palcoscenici fino a pochi anni prima: un eccesso di sex appeal che sbilancia la figura verso i tratti carismatici e gnostici dell’angelo caduto. Il Newton letterario inoltre, nel suo essere una sorta di calamita che attrae disadattati, perché simile chiama simile, rendeva il romanzo quasi corale: il film invece anima solo un protagonista assoluto circondato da poco più che figuranti. Le sfumature e i mezzi toni che fanno la grandezza di Tavis poi, vengono del tutto disattese: ad esempio il rapporto quasi materno fra Newton e la sua governante alcolizzata diventa nel film scoperta relazione sessuale (con una convincente scena in cui l’alieno rivela alla partner terrorizzata le sue fattezze non umane durante l’amplesso).
BALLARD/ CRONENBERG CRASH 1996



Il destino cinematografico di James Ballard è purtroppo quello di essere, se non scopertamente travisato, sempre tradito e depotenziato dai suoi registi: l’effetto altamente deflagrante delle sue opere si riduce sullo schermo al più o meno vivido bagliore di un fuoco artificiale.
Così è stato per L’impero del sole (il romanzo più autobiografico e doloroso dello scrittore britannico, dove si raccontano le sue tragiche esperienze infantili durante l’internamento in un campo di prigionia giapponese nei pressi di Shangai) in cui la fondamentale estraneità di Ballard ad ogni political correctness consolatoria viene caramellata dal disneyano Steven Spielberg per ricacciarla a forza nei ranghi del buonismo hollywoodiano.
Così è anche per la versione cinematografica dell’opera forse più estrema del bardo di Shepperton: il romanzo Crash del 1973, che l’autore definiva “il primo romanzo pornografico basato sulla tecnologia”. Questo libro profondamente sgradevole e geniale, sorta di 120 giornate di Sodoma dell’età di Andy Warhol, non avrebbe potuto trasferirsi fedelmente sullo schermo che sotto forma di infame snuff movie o di porno hard-core particolarmente perverso: l’impresa tentata nel 1996 dal pur simpatetico David Cronenberg era quindi destinata in partenza al fallimento.
La trama di Crash è meno importante della fenomenologia del morboso scatenata dalle interrelazioni ossessive fra i personaggi e l’ambiente: in questo l’autore paga un debito al beatnik William Burroughs e in particolare al suo romanzo cult The Naked Lunch (non a caso portato sullo schermo dallo stesso Cronenberg nel 1991). Il protagonista, un certo James Ballard, viene coinvolto in un’incidente automobilistico in cui uccide un uomo e ne ferisce la moglie con la quale intreccerà nelle settimane seguenti una relazione erotica; contemporaneamente la moglie di Ballard, Catherine, si lascerà sedurre dallo psicopatico Robert Vaughan, che porta sul corpo i segni degli impatti subiti in auto rincorrendo l’iconologia deviante delle star perite in scontri automobilistici. Si crea una complessa rete di relazioni etero e omosessuali fra loro che ha alla base il culto del sesso e della morte dato dall’automobile e dell’incidente stradale visto come l’amplesso supremo in cui il corpo viene modificato dalla tecnologia e aperto a nuove e infinite possibilità erotiche. Vaughan morirà nel tentativo di realizzare i suoi sogni perversi, lanciandosi da un cavalcavia con la sua Lincoln (lo stesso modello di macchina su cui viaggiava John Kennedy al momento dell’attentato) contro l’auto della diva Elizabeth Taylor, che però resterà illesa.
Il regista canadese mantiene sostanzialmente intatte quasi tutte le scene principali del libro limitandosi a sostituire un soft-core da rivista erotica patinata alla compassata brutalità del testo ballardiano. Sceglie però di eliminare gran parte dei riferimenti all’iconologia dello star system (forse ritenuta troppo legata ad un immaginario ormai datato): questo rende poco efficace il finale in cui l’incidente fatale di Vaughan non è provocato dall’aggressione contro Elyzabeth Taylor ma contro l’amante Catherine.
Cronenberg almeno non si permette, come Spielberg, di edulcorare Ballard, ma il suo film, in teoria rispettoso, non riesce mai ad essere niente di più dell’atto di omaggio di un sincero ma troppo timido ammiratore.

domenica 2 marzo 2008

somewhere i have never travelled,gladly beyond
any experience,your eyes have their silence:
in your most frail gesture are things which enclose me,
or which i cannot touch because they are too near

your slightest look easily will unclose me
though i have closed myself as fingers,
you open always petal by petal myself as Spring opens
(touching skillfully,mysteriously)her first rose

or if your wish be to close me,i and
my life will shut very beautifully,suddenly,
as when the heart of this flower imagines
the snow carefully everywhere descending;

nothing which we are to perceive in this world equals
the power of your intense fragility:whose texture
compels me with the colour of its countries,
rendering death and forever with each breathing

(i do not know what is about you that closes
and opens; only something in me understands
the voice of your eyes is deeper than all roses)
nobody,not even the rain,has such small hands

Laddove non mi sono mai avventurato, ben aldilà di
ogni esperienza, i tuoi occhi hanno il loro silenzio:
Nel tuo più esile gesto vi sono cose che mi racchiudono,
O che non mi è possibile toccare perché troppo vicine

Il tuo più soave sguardo può in un attimo dischiudermi
Sebbene io mi sia chiuso come dita,
Un petalo alla volta tu sempre mi dischiudi, come Primavera dischiude
[con abile tocco e misterioso] la sua prima rosa

O se il tuo volere è ch'io sia chiuso, Io e
La mia vita ci chiuderemo aggraziatamente, all'improvviso,
Come quando il cuore di questo fiore immagina
La neve che ovunque cade con prudenza;

Nulla di ciò che ci è dato percepire in questo mondo eguaglia
La forza della tua intensa fragilità: la cui trama
Mi intriga con il colore delle sue vastità,
Restituendo morte e per sempre a ogni respiro

[Io non so cosa sia di te che chiude ed apre; solo qualcosa in me comprende
La voce dei tuoi occhi più profonda di ogni rosa]
Nessuno, nemmeno la pioggia, ha così piccole mani

E.E. Cummings